PADRE ENRICO CIPOLLONE - UN PASTORELLO SULLA VIA DI S. FRANCESCO

Sebbene di carattere schivo e riservato, è stata una figura di alto spessore umano e cristiano della nostra comunità, oltre che un esempio affascinante di sacerdote. Eccetto qualche rara occasione, nel suo paese natale poco si sente parlare di lui, specialmente ora che non c’è più. Quando esercitava il suo ministero sacerdotale, appariva (forse come è giusto che fosse) solo come uno dei tanti frati di cui è stata ricca la comunità di Cese. Da informazioni dirette e documentazioni fedeli, invece, padre Enrico emerge come una figura unica, un frate che poteva far parlare di sé anche ad alti livelli, ma che ha preferito rimanere sempre nell’ombra.
Era uno dei numerosi figli di Polisia e Giuseppe Cipollone, i quali vantavano un’altra singolarità che ha dato loro lustro e vanto: quella di aver avuto in famiglia ben tre sacerdoti. Dopo Padre Enrico, infatti, hanno intrapreso la strada religiosa due suoi fratelli, diventati poi “Padre Rocco” e “Padre Rodolfo”.
Agli inizi della sua fanciullezza Enrico, come tutti i suoi coetanei, dopo la scuola collaborava nei lavori della campagna ed accudiva il gregge della famiglia, conducendolo al pascolo sulle pendici del Monte Salviano. Forse proprio da un episodio legato a questa attività nacque l’idea di entrare in convento per seguire le orme di S. Francesco. Quel giorno, non era ancora primavera, l’aria si faceva sentire pungente sui corpi poco protetti dagli indumenti, ma le greggi dovevano essere condotte al pascolo come sempre. I pastori erano soliti riunirsi in gruppi, secondo l’età, il grado di parentela o le amicizie. Enrico era solito unire il suo gregge a quello di Umberto, un suo coetaneo che abitava a S. Lucia, la parte nord del paese. In quella circostanza le pecore, giunte in località “Sorefarìno” (Solferino), vennero condotte in mezzo alle “cesétte”, i querceti che occupano la zona pedemontana del Salviano. Tra la rada vegetazione i due pastorelli trovarono una verde radura, molto appetitosa per i loro ovini, e qui si fermarono per farli saziare. Spostatisi poi più su, dove era possibile osservare ed ammirare sia la campagna che le pendici della montagna, rimasero a sorvegliare le greggi controllandole dall’alto. Dopo un po’ videro avvicinarsi dalla sommità del monte una persona che scendeva muovendosi frettolosamente fra il pietrame e gli arbusti. Osservando il portamento malfermo e gli indumenti mal ridotti, i due pastorelli furono presi da un certo timore. Infatti il “forestiero” aveva un aspetto poco rassicurante e fra l’altro si dirigeva proprio verso di loro, senza che i due potessero prevederne le intenzioni. Quello invece li apostrofò da lontano, chiedendo un pezzo di pane ed un sorso d’acqua, in quanto vagava da tempo sul monte. La richiesta bastò a rassicurare i due timorosi adolescenti (a quel tempo avevano solo 11 anni). Era il 1944 ed il “girovago” era Padre Antonio Tchank, un sacerdote cinese che a quel tempo si trovava prigioniero nelle carceri di Avezzano. Padre Antonio doveva essere sottoposto a fucilazione proprio quello stesso giorno, ma un “provvidenziale” bombardamento del carcere gli restituì la libertà. In precedenza lo stesso frate aveva operato carità e dato sostegno a molti prigionieri politici, ai perseguitati ed agli sfollati. Siccome in molti avevano beneficiato dell’opera fraterna del religioso, egli era stato a lungo ricercato per boschi e montagne dai soldati tedeschi. Una volta catturato, lo avevano legato dentro un sacco e condotto presso il carcere di Avezzano, quindi processato e condannato a morte.
Il giorno del bombardamento scappò fra le macerie, poco dopo fu soccorso da una famiglia del posto e poi andò alla ricerca di nascondigli sul Monte Cimarani, dove restò per venti giorni cibandosi di bacche, salvia e timo. Quando chiese soccorso ai due pastori, entrambi lo vollero accogliere nelle rispettive famiglie. Enrico rivelò al fuggitivo di aver già in casa e nella stalla altri 12 prigionieri e che quindi un ospite in più non avrebbe stravolto la situazione. Così Padre Antonio venne accolto presso la casa “dejjo Generale”. Padre Tchank rimase a Cese fino all’arrivo degli alleati, che nel giugno del ’44 restituirono la libertà a tutti gli oppressi.
L’incontro con il sacerdote (ed il rapporto che mantenne con lui) fece maturare in Enrico un certo interesse verso la fede e la religione; a lui stesso rivelò di voler continuare la sua missione: - “Prima di ripartire per la Cina – gli disse – insegnami la strada da percorrere” -. Il 28 settembre del 1946, P. Antonio Tchank si presentò a Cese. Era pronto per partire. Enrico aveva trovato la strada per continuare l’opera del missionario Tchank. In fretta i genitori prepararono le poche cose necessarie e il giorno dopo, 29 settembre 1946, Enrico partì per Assisi con il missionario cinese.Fu così che il pastorello di Monte Cimarani entrò nella serafica città di San Francesco per seguire le sue orme e realizzare un sogno: essere uomo di carità e donarsi ai fratelli bisognosi.
La dura vita conventuale non fiaccò il suo animo né il giovane corpo, abituato a ben altre fatiche. Nemmeno l’impegno per lo studio serio e severo lo turbò più di tanto, anzi nel corso degli studi mostrò attitudini eccellenti, riuscendo in tutte le materie. Quello che un pochino lo rattristava era la lontananza dalla sua famiglia e dal paese, ma gli insegnamenti del padre ed i suggerimenti di Polisia gli fecero superare anche questo lieve disagio. Terminati gli studi liceali, iniziò quelli filosofici. Seguirono anni agitati dalla “Crociata Missionaria” ed Enrico intuì che qualcosa stava cambiando. Ottenne l’autorizzazione a frequentare il corso accademico a Roma. Durante questo periodo incominciò a pensare seriamente all’ordinazione sacerdotale, dopo essere divenuto diacono. Così il parroco di Cese – don Angelo Leonetti – in collaborazione con i familiari ed i fratelli chierici, Rocco e Rodolfo, attivò i preparativi per la prima messa solenne in paese. Questa fu celebrata il 19 luglio del 1959 e fu un giornata di grande festa per la popolazione, per mamma Polisia e per tutta la famiglia “dejjo Generale”. Dopo i festeggiamenti, Padre Enrico tornò a Roma per gli esercizi spirituali, per terminare gli studi e conseguire la licenza in Sacra Teologia, alla fine dello stesso anno. In quello successivo ebbe l’impegno di preparare le liturgie per la messa solenne del fratello P. Rocco, dopodiché si mise a completa disposizione del Padre Provinciale. Questi gli affidò la cura e la formazione di un folto gruppo di giovani che frequentavano il collegio di Atri. Gli studenti ripagavano il suo impegno con belle soddisfazioni, apprendevano suggerimenti e consigli, oltre alle nozioni impartite da lui, ed erano allietati dalle tante storielle, da aneddoti e barzellette che raccontava loro per render la scuola meno noiosa. La sua cordialità, il perenne sorriso, la sua disponibilità ed umiltà lo fecero apprezzare da tutti quelli che ebbero la fortuna di conoscerlo. D’altra parte il collegio di Assisi, fucina nella quale ci si arricchisce di sentimenti profondi, e la scuola, che ingentilisce anche i temperamenti più rozzi, non avevano potuto che giovare ad un animo nobile e caritatevole.
Dal canto suo P. Enrico ha ricevuto molto dall’esperienza religiosa e dall’insegnamento dato ai ragazzi. In seguito definì “un periodo di vita magico” l’esperienza di collaboratore del rettore e tutore dei tanti ragazzi. Gli adolescenti lo hanno sempre seguito quasi con venerazione, sono rimasti attaccatissimi a lui, tanto che molti lo hanno scelto come loro padre spirituale. Ognuno ha poi seguito la propria vocazione, realizzando sogni personali ed ottenendo belle soddisfazioni, ma quel rettore così giovane, socievole e gioioso (come erano i tanti pastorelli del suo paese) è rimasto sempre vivo nei loro cuori.
Nel settembre del 1963 P. Enrico fu nominato parroco della chiesa di S. Antonio a Pescara, una delle parrocchie più importanti della città adriatica, oltre che santuario frequentatissimo. Qui poté dedicarsi in maniera più intensa alla preghiera ed alla contemplazione, maturando l’idea di seguire l’esempio del “suo maestro” missionario Padre Tchank. Dopo quattro anni di sacerdozio, infatti, scrisse al Padre Provinciale per realizzare un grande progetto. “Dopo maturata riflessione, eccomi a farLe presente il mio desiderio di andare in terra di missione. Fin da bambino nutrii nel mio cuore questo ideale apostolico e parte importante ne fu certamente la singolare relazione che ebbi con P. Tchank. Ora penso sia giunto il tempo per realizzarlo con la Sua benedizione … Tanti potranno fare il parroco a Sant’Antonio, ma penso che il posto che io avrei dovuto avere in terra di missione forse nessuno voglia sdebitarmelo … ”
Per ironia della sorte, però, il Provinciale inviava missionario in Korea il fratello P. Rocco, il quale non ne aveva fatto richiesta e si trovava allora a Civitella del Tronto ad esercitare l’insegnamento ai novizi. Era forse il destino a muovere i programmi di quell’Ordine o la Provvidenza aveva altri disegni? Fu probabilmente vera la seconda ipotesi, e P. Enrico rimase nel “suo” Abruzzo, dove poteva seguire molteplici attività, sempre con il suo temperamento forte. Appassionato di musica e musicista egli stesso, volle allora arricchire la propria chiesa di un pregevole organo. Con lo stesso strumento iniziò a cimentarsi in alcune composizioni. Dopo l’elezione del nuovo Ministro Provinciale P. Enrico fu confermato parroco di S. Antonio e ricevette anche l’incarico di guardiano del convento.
Con il suo carattere fraterno, socievole e gioviale, continuò così a dimostrarsi aperto e comprensivo con tutti. Qualche contrasto tra il Provinciale ed il Superiore spinse P. Enrico a dimettersi, ma le dimissioni non furono accolte e gli vennero confermati i due incarichi. Giunto in seguito all’esasperazione, motivò le rinnovate dimissioni dichiarandosi incapace di eseguire ordini disfattisti. Nella stessa lettera rimise nelle mani del Provinciale i due incarichi, ottenendo quindi quello di “delegato provinciale per la musica sacra”, incombenza che lo portò a prendere parte a vari incontri nazionali in tutta Italia. Con rinnovato entusiasmo seppe così affinare le proprie doti musicali. Dopo dieci anni di permanenza a Pescara, chiese di essere trasferito a Silvi Marina, nella parrocchia-convento di Santa Maria Assunta, dove rimase altri quindici anni. Tra gli scritti ha lasciato una serie di omelie incentrate sulla forma sistematica ed organica della catechesi da trasmettere ai fedeli. In esse si nota anzitutto l’impegno nella preparazione; le copie dattiloscritte dimostrano come non lasciasse mai spazio all’improvvisazione, se non per regalare sorrisi con le tante storielle ed i numerosi racconti (anch’essi lasciati per iscritto). Con la propria semplicità di linguaggio ed il calore della parola riusciva a comunicare incisivamente e a raggiungere il cuore di chi lo ascoltava. Parlava del messaggio di San Francesco con passione, riscuotendo consensi e suscitando entusiasmo specialmente quando definiva gli attenti uditori come “ferventi francescani”.
Oltre che abile musicista, P. Enrico era un provetto esecutore ed un ottimo insegnante; forse anche per questo seppe dotare la parrocchia di Silvi di un importante organo che ancora oggi è il vanto della chiesa di Santa Maria Assunta. Nel 1987 fece la stessa cosa per la chiesa di San Francesco, a Tagliacozzo, dove aveva richiesto ed ottenuto di andare. Per riuscire nell’intento aveva sensibilizzato confratelli e privati, e coinvolgendo anche le autorità ottenne gli aiuti necessari. Ancora oggi sono numerosi i ragazzi del posto che frequentano gli studi musicali ed il conservatorio. A chi allora non poteva permettersi lo stesso “lusso” per questioni economiche (pur mostrando attitudine e buona volontà) P. Enrico impartiva lezioni gratuitamente, anche con l’ausilio di un pianoforte ricevuto in dono da una famiglia. Continuò comunque a comporre brani di musica sacra lasciando una messa, alcuni canti liturgici e vari mottetti. Ha scritto anche pezzi meno impegnati, oltre ad una deliziosa “Ninna Nanna”. Ha creato una “Schola cantorum” che porta il suo nome e che esegue ancora oggi i suoi brani, come d’altra parte il coro di San Francesco che opera sempre a Tagliacozzo.
Durante il suo ministero sacerdotale ha manifestato sempre amore e carità verso tutti. Ha accolto ed accudito sacerdoti anziani, ha curato chi era afflitto da dolori e malattie, ha abbracciato i frati allontanati dall’Ordine, addolcendo loro bocconi amari. Ha accompagnato e seguito sempre quelli che erano costretti a letto o in ospedale. Ha passato settimane intere al capezzale di un confratello e ha noleggiato un’ambulanza per riportare lo stesso a Pescara una volta resosi conto che la sua fine era vicina. Sarebbero tanti altri gli esempi di generosità da annoverare nel corso della sua breve vita, ma a rendergli onore e gloria bastano le definizioni con le quali veniva e viene descritto. Si comportava nello stesso modo con tutti, metteva a proprio agio anche i più umili e quelli meno acuti e preparati. Sapeva far convivere vecchi e giovani, amici e nemici, buoni e malvagi, semplicemente perché possedeva il carisma della dolcezza. Viene ricordato ancora oggi come una persona mite, meravigliosa, un frate premuroso, sorridente e persino spassoso, che - con quella voce velata da una leggera raucedine - salutava cordialmente tutti con il classico augurio francescano di “Pace e Bene”.
Allo stesso modo ha salutato la brulla terra che lo ha visto nascere ed i pascoli sassosi del Monte Salviano per raggiungere spazi più verdi. Lo ha fatto alla giovane età di 55 anni, la notte del 13 settembre del 1990, dopo una notte trascorsa in raccoglimento, meditando sulla Croce, rivivendo le Sacre Stimmate di San Francesco per raggiungere, come fosse una transumanza, i pascoli dell’Eternità da povero pastorello.

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Testo tratto da "Un'eco di note e di passi", di Osvaldo Cipollone.